Ricordo mio padre.
Mi faceva paura.
Sono intrappolato nella presa di una camicia di forza, all'interno di un'automobile, sott'acqua. Senza dubbio è l'Hudson.
Quando compii dieci anni ricordo che mio padre mi fece sedere nel suo studio e stetti lì tre ore ad imparare l'intero albero genealogico della nostra famiglia,senza il minimo errore, sino a risalire al 1260. Col tempo ho imparato che quel albero ha radici che si spingono ancora di più nelle fondamenta di questa terra.
Mangrove Pierce Sr. era un uomo duro, metodologico. Amava l'ordine e la razionalità, non lasciava che nulla sfuggisse alla sua attenzione
Mangrove Pierce Sr. pensava a tutto.
Mangrove Pierce pensa a tutto.
Un'isola dalla testa di moro, sperduta chissà dove. Dieci uomini che avrebbero potuto cambiare il mondo. Ma c'è sempre qualcuno che deve rovinare le cose. C'è sempre una serpe nel giardino.
Mi lasciò fuggire.
Mi hanno lasciato in vita. Cattivi da fumetto. La camicia di forza è la parte più difficile. Devo lasciare che l'irreale penetri nel reale, credere che sia possibile. Una falla nel sistema, una falla nel meccanismo ad orologeria. Il violino fuor di chiave.
Un pesce mi scruta al di là del parabrezza con occhi vacui. Cos'è possibile? Impossibile è uscire di casa ogni sera ed affrontare 69 ninja fuori di testa, o semplicemente afferrare quella maschera e lasciare che il lattice la faccia aderire sulla pelle? Lasciare che le mani afferrino quella maschera è più complicato di tutto il resto. Dopo di questo, tutto è in discesa. Dopo di questo essere intrappolato in una camicia di forza sott'acqua diventa solo fastidioso.
Dopo qualche minuto sono libero. Mi tocco il viso. Non mi hanno tolto la maschera, per onorare il guerriero e la sua volontà. Eppure mi hanno portato via la Lynx-cintura. Marpioni.
Mangrove Pierce pensa a tutto. Infilo senza troppo ritegno la mano nelle mutande, ed afferro un esplosivo. Battute goliardiche esplicitamente sessuali a parte, immaginavo che non avrebbero mai cercato proprio... lì.
Mi riparo dietro il sedile posteriore, e lancio l'esplosivo contro il parabrezza. Il tempo sembra scorrere infinito lungo una destinazione che non esiste. Ritorno ai miei dieci anni.
Dopo quelle tre ore passate ad imparare quell'albero genealogico, fino a discendere al 1260 ricordo che andai con mio padre e mia madre a visitare il serraglio di un importante amico di famiglia, nel sud-est asiatico. Ricordo che per qualche motivo sconosciuto, ad un certo punto rimasi lì, da solo. I miei genitori probabilmente s'erano allontanati per qualche minuto. Quel serraglio puzzava di feci di scimmia e di uccello, e fu lì che la vidi per la prima volta. Mi avvicinai alla gabbia con passi incerti, e lei era lì, che mi scrutava con quei suoi occhi gialli. Stringeva nella bocca elegante un topolino a cui aveva spezzato il collo con la stessa facilità con cui respirava. Ricordo che quegli occhi gialli spiavano all'interno della mia anima con la stessa intensità con cui nessun occhio umano avrebbe mai fatto in una vita intera, più nel profondo di quanto mai avrebbero fatto gli occhi di mio padre o quelli di mia madre. Perché quegli occhi gialli scrutavano ogni giorno l'abisso oscuro che ognuno di noi ha abbandonato ormai da diverse vite passate, da intere generazioni, da interi eoni, da quando camminavamo a piedi scalzi sulla terra. E quegli occhi gialli volevano spingermi in quel baratro ancora una volta, farmi ricordare cosa si prova di fronte... di fronte a tutto quello che ignoriamo quando siamo svegli e che ricordiamo per qualche secondo, nei sogni, per poi dimenticare di nuovo al mattino, appena svegliati.
Che mio padre l'avesse intuito? Era lo scopo di quell'albero genealogico?
La puzza del serraglio mi dava alla testa, avevo voglia di vomitare, e quegli occhi gialli erano come un arpione agganciato al mio cuore ed alla mia anima. Gli occhi di quella lince erano un urlo silenzioso, ed io lo stavo ascoltando con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, atterrito dalla paura. Avrei voluto strapparmi il cuore ed offrirglielo in sacrificio. Scappai via spaventato perché non riuscivo a capire; corsi tra le braccia di mia madre. Lei mi disse che la puzza non ci sarebbe stata più, dopo un po', che c'avrei fatto l'abitudine.
Il parabrezza va in frantumi, l'acqua riempie in pochi istanti l'abitacolo.
Difficile. Niente affatto impossibile.
La notte dopo il Tai Mien è in festa, i Letali 69 stanno banchettando in onore della mia onorevole morte. Con loro c'è un elemento che stona con l'intero ambiente orientale. Un uomo in giacca e cravatta, occhialuto, di buon rango sociale. Probabilmente è l'intermediario di chi ha voluto la mia morte.
Ho piazzato gli esplosivi durante la mattinata, nessuno ha badato ad un povero drogato che girava con fare circospetto intorno al locale. Mi presento a loro incappucciato, con una Lynx-cintura di riserva, appeso ad una trave. Non mi è risultato difficile intrufolarmi. Loro mi guardano divertiti.
<Signori>, esordisco, <avete cenato bene.>
E dopo il locale è scosso dalle esplosioni.
Bum-bum-bum, il ritmo del mio cuore e delle esplosioni sono sincronizzati. Sembra uno spettacolo pirotecnico.
I Letali 69 abbandonano il locale presi dal panico, e si disperdono nella pioggia. Osservo da lontano l'uomo in giacca e cravatta che scompare correndo come un ossesso nella notte. E' strano. Appollaiato qui, nella notte di Hell's Gate, sento un puzzo familiare. Il puzzo del serraglio. E' ritornato, la sento ovunque, in ogni vicolo di questa città.
Questa città è il mio parco giochi. Questa città è il mio serraglio.
So con chi dovrò parlare, stanotte.
Penitenziario di Stato, quella notte stessa.
Wallace Sage è rintanato nella sua cella, con le mani strette tra loro ed appoggiate sulle ginocchia. Una luna piena filtra dalla finestra del corridoio su cui dà la sua cella. Dall'ombra emerge un secondino, il volto è nascosto dalla penombra del corridoio.
Il secondino lo spia.
<Ancora non hai capito>, gli dice. <Io non posso essere fermato. Posso raggiungerti ovunque, Sage. Posso rendere questa prigionia ancora peggiore di quanto non sia già.>
<Quando finirà?>, gli chiede Sage, con un sorriso sardonico stampato sulla sua faccia smunta.
Il secondino si volta, e mentre Sage ascolta il rumore dei passi che si fa pian piano più labile, nella notte, quello gli risponde.
<Non finisce mai.>
sabato 19 novembre 2011
martedì 25 ottobre 2011
Relazioni
Quando non ho a che fare con serial killer, gangster e stupratori mi piace prendere un bel caffè. Con colleghi, o semplici amici. Questa sera la mia compagnia è piuttosto influente, scommetto che farà di tutto per non farsi notare. Infondo è una persona a modo, nonostante reciti la parte del vip.
Mangrove Pierce. Lo conosco da una vita, è uno dei miei più cari amici. Ci siamo conosciuti in collegio, quando vivevo ancora a New York con i miei. Le nostre famiglie erano entrambe benestanti, di un certo rango sociale. Certo, in quanto a prestigio i Freeman non potevano neanche essere accostati ai Pierce, ma ci conoscemmo entrambi allo stesso collegio nell'Upper West Side di Manhattan.
Decidiamo di incontrarci in una tavola calda qualunque, dall'aspetto amorevole. Il cielo è terso, colmo di nubi. Lo aspetto fuori dal locale, mentre osservo i Newyorkesi andare a zonzo per le strade, persi nelle loro vite. Ognuno pensa di essere il protagonista del film della propria vita ma in questa vita non siamo mai il protagonista. Siamo solo comparse.
Ed eccolo lì. Mangrove Pierce. Arriva con la sua andatura elegante, composta. Indossa un soprabito grigio, le mani coperte da un paio di guanti neri di ottima fattura. I capelli sono neri, scurissimi, pettinati all'indietro, ma non sporchi ed unti di gel. Sono pieni, folti, ben curati. I baffi di Mangrove alla Clark Gable gli donano un look vecchio stile, da star hollywoodiana anni '30. Gli occhi sono il suo particolare più interessante. Intelligenti, accesi, sembra che siano sempre alla ricerca di qualcosa che non riesco a cogliere. Sembrano quasi spiritati. Sono un buon osservatore.
<Spero proprio che qualche paparazzo idiota non ci scatti qualche foto assieme. Mi immagino già i titoli dei peggiori giornaletti di domani: "Mangrove Pierce: scottante relazione omosessuale proibita con il sergente Robin Freeman?">, mi dice.
<Mi stai dando dell'uomo poco piacente?>, gli rispondo con il sorriso sulle labbra, ed assieme entriamo nella tavola calda. Prendiamo posto al bancone. Io ordino un caffè, Mangrove un succo d'arancia ed un cornetto alla crema. Non ha paura di ingrassare, a quanto pare. Glielo faccio notare.
<Faccio parecchia attività fisica.>, mi dice. Parliamo del più e del meno, gli racconto dell'ultima novità in città: la Lince. Un nuovo avventuriero in costume ha fatto il suo ingresso in società, assieme ai vari Specter e Nailer. Non mi piacciono quei due, ma sembrano piacere molto a Clint Creed. Li appoggia, alla sua maniera.
E mentre gli racconto di uomini mascherati e di mirabolanti superpoteri Mangrove Pierce non batte ciglio. E' incredibile. Quando ero ragazzino non so cosa avrei dato per vedere dal vivo un vero supereroe. E' per questo che mi sono arruolato in polizia, per servire la legge. Credevo che indossare una maschera fosse impossibile e pericoloso, oltre che da idioti. Dovevo arrivarci, che il mondo fosse pieno di idioti.
<Questa città andrà a rotoli.>, mi dice Mangrove, mentre sorseggia con pacatezza il suo succo d'arancia. Credo di sapere il perché, e lui mi risponde prima che possa chiederglielo.
<Sono solo un branco di fascisti, questi eroi mascherati. Individui disturbati, che si elevano a giudice, giuria e boia di poveri dementi che avrebbero soltanto bisogno di un giusto processo. E... aspetta. So che vuoi dire. Se uno di loro stuprasse tua madre, saresti ancora a favore del giusto processo? Tu cosa preferiresti? Il giusto processo o l'anarchia dilagante per le strade, dove ognuno si fa giustizia da solo? Probabilmente non tutti sono adatti ad essere un eroe in costume. Lui è il violino fuor di chiave. Lui è la falla nel sistema.>
Se stuprassero tua madre... il solito Mangrove. I suoi genitori sono morti parecchio tempo fa, quando aveva diciott'anni. La notizia divenne uno scandalo e restò sulla bocca di tutti per parecchio tempo. Le vere cause della morte non sono mai state rivelate.
<Io non ho detto niente...>, gli dico. Non gli stacco gli occhi di dosso.
<A volte gli eroi in costume hanno una motivazione, un dramma, alla base delle loro azioni, sai?>, gli dico. Non mi preoccupo di risultare scortese per la non velata allusione. Mangrove ama le persone schiette.
<Ti riferisci a me? Non è il mio caso. Io mi sono ripreso, Robin.> , ora mi guarda anche lui. Il suo sguardo è un baratro.
<Tu ti sei ripreso, Robin?>
Penitenziario di Stato, New York. Ieri pomeriggio.
L'ora di visite. L'uomo perbene che si era recato alla Cantina del gatto nero è faccia a faccia con Wallace Sage. Due collaboratori fidati, padrone e servo, che discutono su come siano andate le cose. L'ambiente è silenzioso ed asettico, l'uomo perbene è un docile sottomesso.
Il Sussurratore era riuscito a scovare la Lince senza problemi; se durante i primi tempi dei suoi avvistamenti l'avventuriero in costume sembrava operare su tutta Manhattan, adesso pareva stabilmente agire ad Hell's Gate. Trent'anni fa Hell's Gate non aveva questo nome, bensì era conosciuta come Wellfare Gate. Doveva essere uno dei quartieri di Manhattan più lussuosi. Ma nulla va mai come ci si aspetta. Cancellata la 'w' e 'fare' a causa della mano pesante dei teppisti, 'Wellfare' è diventato 'Hell's'. La tana della Lince, e lì il Sussurratore l'ha scovata.
Ma è rimasto ucciso. L'uomo perbene ha assistito al tutto stringendo tra le mani un binocolo, tenendosi in disparte.
Wallace Sage: un uomo cresciuto con la convinzione che tutto ciò che vuole possa ottenerlo. Ora ciò che vuole è la morte di quell'uomo.
Dietro la facciata da onesto uomo d'affari, si cela un burattinaio della vita criminale. Molti, troppi agganci.
<I Letali 69.>, dice infine con voce fredda.
Hell's Gate, adesso.
Mi fondo tra le architetture gotiche e decadenti di Hell's Gate. Mi mimetizzo tra gargoyles di pietra e colonnati corinzi. Il vento notturno mi sferza il viso, il mantello scarlatto mi fa sembrare un angelo. La maschera nera che mi copre il viso mi ricorda che Mangrove Pierce non esiste. Non questa notte. In nessuna di queste notti. Mi getto nel vuoto, e sento i clacson inondare le strade sotto di me. Osservo questi piccoli uomini con il cipiglio di un dio indifferente. Alzo il braccio destro, e dal polsino del guanto fuoriesce un rampino. Infilza il cemento di un edificio, oscillo nel vuoto come un circense pazzo.
Sento delle urla. Una ragazza è in pericolo, in un vicolo poco lontano. E' orientale, giapponese. Anche il suo aggressore. Un tipo pelato le punta alla gola un coltello. Prima che possa fare qualcosa... semplicemente scompare. Dov'è finito? Una proiezione mentale, una trappola?
Sembra di no. Ai miei piedi c'è un biglietto... mi chino, per raccoglierlo. E' un locale. Probabilmente l'ha perso l'aggressore. 'Il Covo di Tai Mien: lounge bar and happiness'.
Tai Mien. In Giapponese significa maschera.
Mi fiondo nel locale. Sfondo una finestra, ma sembra deserto, al buio. All'improvviso, le luci si accendono.
Dei giapponesi vestiti con smoking, armati di katane e dal viso coperto da una maschera simile alla mia irrompono da una saletta urlando come degli indemoniati. Il capo sembra essere il pelato. Tra le loro fila riconosco anche la ragazza in pericolo.
Le donne.
E' già il secondo attentato che ricevo in brevissimo tempo. Mi sto già facendo amici potenti? Immagino chi possa essere.
Li riconosco. I Letali 69. Mercenari al servizio del miglior offerente. Dicono che il loro servizio sia soddisfacente come un bel '69'.
I giapponesi.
Vediamo un po'. Sessantanove uomini contro uno solo? Mi preparo alla guerra. Tiro su il cappuccio, e stringo i pugni. Mi fiondo da una parte all'altra del locale, il rampino mi consente di muovermi velocemente. Li affronto uno alla volta, schivando le altre katane. Sorrido mentre i miei pugni li colpiscono in faccia. Voglio sentire il dolore, ed il gusto amaro del sangue sulle mie labbra.
Cerco semplicemente di non far in modo che mi si fiondino tutti addosso. A volte ne disarmo uno e faccio uso della katana per affettare qualcun'altro. Ovviamente nessun tipo di ferita mortale.
Ma c'è qualcosa che non va. Che succede? In mezzo a tutta quella calca, mi sembra di vedere una persona familiare. Un quarantenne, caucasico, anch'egli vestito in smoking. Capelli pettinati all'indietro, baffi ben curati.
Mangrove Pierce Senior. Mio padre. Allucinazione. Mi distraggo quel tanto che basta affinché il manico di una katana mi colpisca alla testa, facendomi perdere i sensi.
Tutto diventa buio.
Quando mi risveglio mi ritrovo avvinghiato ad una camicia di forza, dentro un automobile. Sott'acqua. Cattivi da fumetto. Bastava un colpo alla testa ben assestato.
Mangrove Pierce. Lo conosco da una vita, è uno dei miei più cari amici. Ci siamo conosciuti in collegio, quando vivevo ancora a New York con i miei. Le nostre famiglie erano entrambe benestanti, di un certo rango sociale. Certo, in quanto a prestigio i Freeman non potevano neanche essere accostati ai Pierce, ma ci conoscemmo entrambi allo stesso collegio nell'Upper West Side di Manhattan.
Decidiamo di incontrarci in una tavola calda qualunque, dall'aspetto amorevole. Il cielo è terso, colmo di nubi. Lo aspetto fuori dal locale, mentre osservo i Newyorkesi andare a zonzo per le strade, persi nelle loro vite. Ognuno pensa di essere il protagonista del film della propria vita ma in questa vita non siamo mai il protagonista. Siamo solo comparse.
Ed eccolo lì. Mangrove Pierce. Arriva con la sua andatura elegante, composta. Indossa un soprabito grigio, le mani coperte da un paio di guanti neri di ottima fattura. I capelli sono neri, scurissimi, pettinati all'indietro, ma non sporchi ed unti di gel. Sono pieni, folti, ben curati. I baffi di Mangrove alla Clark Gable gli donano un look vecchio stile, da star hollywoodiana anni '30. Gli occhi sono il suo particolare più interessante. Intelligenti, accesi, sembra che siano sempre alla ricerca di qualcosa che non riesco a cogliere. Sembrano quasi spiritati. Sono un buon osservatore.
<Spero proprio che qualche paparazzo idiota non ci scatti qualche foto assieme. Mi immagino già i titoli dei peggiori giornaletti di domani: "Mangrove Pierce: scottante relazione omosessuale proibita con il sergente Robin Freeman?">, mi dice.
<Mi stai dando dell'uomo poco piacente?>, gli rispondo con il sorriso sulle labbra, ed assieme entriamo nella tavola calda. Prendiamo posto al bancone. Io ordino un caffè, Mangrove un succo d'arancia ed un cornetto alla crema. Non ha paura di ingrassare, a quanto pare. Glielo faccio notare.
<Faccio parecchia attività fisica.>, mi dice. Parliamo del più e del meno, gli racconto dell'ultima novità in città: la Lince. Un nuovo avventuriero in costume ha fatto il suo ingresso in società, assieme ai vari Specter e Nailer. Non mi piacciono quei due, ma sembrano piacere molto a Clint Creed. Li appoggia, alla sua maniera.
E mentre gli racconto di uomini mascherati e di mirabolanti superpoteri Mangrove Pierce non batte ciglio. E' incredibile. Quando ero ragazzino non so cosa avrei dato per vedere dal vivo un vero supereroe. E' per questo che mi sono arruolato in polizia, per servire la legge. Credevo che indossare una maschera fosse impossibile e pericoloso, oltre che da idioti. Dovevo arrivarci, che il mondo fosse pieno di idioti.
<Questa città andrà a rotoli.>, mi dice Mangrove, mentre sorseggia con pacatezza il suo succo d'arancia. Credo di sapere il perché, e lui mi risponde prima che possa chiederglielo.
<Sono solo un branco di fascisti, questi eroi mascherati. Individui disturbati, che si elevano a giudice, giuria e boia di poveri dementi che avrebbero soltanto bisogno di un giusto processo. E... aspetta. So che vuoi dire. Se uno di loro stuprasse tua madre, saresti ancora a favore del giusto processo? Tu cosa preferiresti? Il giusto processo o l'anarchia dilagante per le strade, dove ognuno si fa giustizia da solo? Probabilmente non tutti sono adatti ad essere un eroe in costume. Lui è il violino fuor di chiave. Lui è la falla nel sistema.>
Se stuprassero tua madre... il solito Mangrove. I suoi genitori sono morti parecchio tempo fa, quando aveva diciott'anni. La notizia divenne uno scandalo e restò sulla bocca di tutti per parecchio tempo. Le vere cause della morte non sono mai state rivelate.
<Io non ho detto niente...>, gli dico. Non gli stacco gli occhi di dosso.
<A volte gli eroi in costume hanno una motivazione, un dramma, alla base delle loro azioni, sai?>, gli dico. Non mi preoccupo di risultare scortese per la non velata allusione. Mangrove ama le persone schiette.
<Ti riferisci a me? Non è il mio caso. Io mi sono ripreso, Robin.> , ora mi guarda anche lui. Il suo sguardo è un baratro.
<Tu ti sei ripreso, Robin?>
Penitenziario di Stato, New York. Ieri pomeriggio.
L'ora di visite. L'uomo perbene che si era recato alla Cantina del gatto nero è faccia a faccia con Wallace Sage. Due collaboratori fidati, padrone e servo, che discutono su come siano andate le cose. L'ambiente è silenzioso ed asettico, l'uomo perbene è un docile sottomesso.
Il Sussurratore era riuscito a scovare la Lince senza problemi; se durante i primi tempi dei suoi avvistamenti l'avventuriero in costume sembrava operare su tutta Manhattan, adesso pareva stabilmente agire ad Hell's Gate. Trent'anni fa Hell's Gate non aveva questo nome, bensì era conosciuta come Wellfare Gate. Doveva essere uno dei quartieri di Manhattan più lussuosi. Ma nulla va mai come ci si aspetta. Cancellata la 'w' e 'fare' a causa della mano pesante dei teppisti, 'Wellfare' è diventato 'Hell's'. La tana della Lince, e lì il Sussurratore l'ha scovata.
Ma è rimasto ucciso. L'uomo perbene ha assistito al tutto stringendo tra le mani un binocolo, tenendosi in disparte.
Wallace Sage: un uomo cresciuto con la convinzione che tutto ciò che vuole possa ottenerlo. Ora ciò che vuole è la morte di quell'uomo.
Dietro la facciata da onesto uomo d'affari, si cela un burattinaio della vita criminale. Molti, troppi agganci.
<I Letali 69.>, dice infine con voce fredda.
Hell's Gate, adesso.
Mi fondo tra le architetture gotiche e decadenti di Hell's Gate. Mi mimetizzo tra gargoyles di pietra e colonnati corinzi. Il vento notturno mi sferza il viso, il mantello scarlatto mi fa sembrare un angelo. La maschera nera che mi copre il viso mi ricorda che Mangrove Pierce non esiste. Non questa notte. In nessuna di queste notti. Mi getto nel vuoto, e sento i clacson inondare le strade sotto di me. Osservo questi piccoli uomini con il cipiglio di un dio indifferente. Alzo il braccio destro, e dal polsino del guanto fuoriesce un rampino. Infilza il cemento di un edificio, oscillo nel vuoto come un circense pazzo.
Sento delle urla. Una ragazza è in pericolo, in un vicolo poco lontano. E' orientale, giapponese. Anche il suo aggressore. Un tipo pelato le punta alla gola un coltello. Prima che possa fare qualcosa... semplicemente scompare. Dov'è finito? Una proiezione mentale, una trappola?
Sembra di no. Ai miei piedi c'è un biglietto... mi chino, per raccoglierlo. E' un locale. Probabilmente l'ha perso l'aggressore. 'Il Covo di Tai Mien: lounge bar and happiness'.
Tai Mien. In Giapponese significa maschera.
Mi fiondo nel locale. Sfondo una finestra, ma sembra deserto, al buio. All'improvviso, le luci si accendono.
Dei giapponesi vestiti con smoking, armati di katane e dal viso coperto da una maschera simile alla mia irrompono da una saletta urlando come degli indemoniati. Il capo sembra essere il pelato. Tra le loro fila riconosco anche la ragazza in pericolo.
Le donne.
E' già il secondo attentato che ricevo in brevissimo tempo. Mi sto già facendo amici potenti? Immagino chi possa essere.
Li riconosco. I Letali 69. Mercenari al servizio del miglior offerente. Dicono che il loro servizio sia soddisfacente come un bel '69'.
I giapponesi.
Vediamo un po'. Sessantanove uomini contro uno solo? Mi preparo alla guerra. Tiro su il cappuccio, e stringo i pugni. Mi fiondo da una parte all'altra del locale, il rampino mi consente di muovermi velocemente. Li affronto uno alla volta, schivando le altre katane. Sorrido mentre i miei pugni li colpiscono in faccia. Voglio sentire il dolore, ed il gusto amaro del sangue sulle mie labbra.
Cerco semplicemente di non far in modo che mi si fiondino tutti addosso. A volte ne disarmo uno e faccio uso della katana per affettare qualcun'altro. Ovviamente nessun tipo di ferita mortale.
Ma c'è qualcosa che non va. Che succede? In mezzo a tutta quella calca, mi sembra di vedere una persona familiare. Un quarantenne, caucasico, anch'egli vestito in smoking. Capelli pettinati all'indietro, baffi ben curati.
Mangrove Pierce Senior. Mio padre. Allucinazione. Mi distraggo quel tanto che basta affinché il manico di una katana mi colpisca alla testa, facendomi perdere i sensi.
Tutto diventa buio.
Quando mi risveglio mi ritrovo avvinghiato ad una camicia di forza, dentro un automobile. Sott'acqua. Cattivi da fumetto. Bastava un colpo alla testa ben assestato.
martedì 18 ottobre 2011
Zone di grigio
Solo, il povero negretto,
in un bosco se ne andò:
ad un pino si impiccò,
e nessuno ne restò.
No. Non è andata esattamente così. Mi accorgo di lei prima ancora che mi rivolga parola. La pelle è alabastro, i capelli sono stracci di notte che le incorniciano dolcemente il viso, la bocca è una ciliegia.
<Mangrove Pierce.>
Qui, al club dei gentiluomini di New York, indosso la maschera delle circostanze, sfoggio il sorriso da porco, le mani si articolano nelle mosse di un esasperato attore shakesperiano un po' ritardato.
<E tu, mia cara, dovresti essere la numero 129 questa settimana.>
Non batte ciglio, e quel sorriso non le si sfila di dosso. Sembra uscita da un film di David Lynch. La cappa di fumo dei sigari dei miei "amici" ci avvolge. Azzardo la seconda mossa.
<Posso sapere cosa induce una bella e giovane donna come te a rivolgere parola ad un vecchio armadio come me? Soprattutto in un luogo così... tremendamente inflazionato, per un corteggiamento.>
<Odio l'arte priva di contenuto. Ero al MoMA poco fa, quindi potrai immaginare. Cercavo qualcosa che potesse attirare meglio la mia attenzione.>
Cerco di sfoggiare la miglior risata strafottente che mi riesca. Mi asciugo persino una lacrima inesistente.
<Oh, signorina. Non so se essere lusingato oppure offeso. Mi hai preferito ad Andy Warhol. E Van Gogh? Non lasciarti fuorviare dalla stramba arte moderna del primo piano! Non hai voluto perderti tra le stella della sua 'Notte Stellata'?>
<Avevo semplicemente voglia di osservare quelle vere, assieme ad una buona compagnia.>
La ragazzina ci sa fare, ha una bella bocca. L'avrà allenata parecchio. Cosa cerca? Il brivido di ritrovarsi avvinghiata con Mangrove Pierce nella foto di un qualunque giornale scandalistico di New York, che mostrerà con orgoglio alle proprie nipoti tra cinquant'anni? Odio le donne prive di contenuto. Accontentiamola.
Ma prima che possa rispondere lei mi anticipa.
<Ci sono ventidue uomini in questa sala, e più o meno altrettante donne, facenti parti della 'crema' dell' alta borghesia Newyorkese. Ogni uomo è un lupo. Sigaro, abiti di una certa classe, portafogli gonfi come un omino Michelin. Ho notato che sono sempre loro a fare il primo passo, ad inquadrare la preda ed a partire all'attacco. Stanotte la quasi totalità dei lupi porterà nel proprio letto una pecora o due. Tutti hanno fatto la prima mossa. Il lupo Mangrove Pierce si limita a gettare battute di fine humor inglese qui e lì, a bere qualche drink, a scherzare con qualche pecora. Eppure alla fine della serata risale da solo sulla propria Rolls Royce. La cosa strana è che lui non risale sulla propria macchina per incapacità personale. E' considerato uno degli uomini più piacenti da Vogue. E' una scelta personale, dunque?>
Mi sforzo di non cancellare dal mio viso il sorriso da porco. Questa è da tenere d'occhio. Sicuramente. Rido di nuovo.
<Sei proprio un tesoro, mia cara. Davvero divertente. Come hai detto di chiamarti?>
<Non l'ho detto. Mi chiamo Medea.>
<Medea! Che nome paradisiaco! Allora, che ne dici di uscircene un po', da questa cappa opprimente di fumo, e goderci lo spettacolo del cielo stellato?>
New York, la notte dopo.
A Crime Alley, ovverosia uno dei peggiori ghetti di New York, esiste un locale su cui ci sono strane voci. 'La cantina del gatto nero'. L'uomo che questa notte fa il suo ingresso nel locale è un uomo perbene, di un certo rango sociale, lavoratore, marito e padre esemplare, che cerca goffamente di sembrare l'esatto opposto. Si avvicina al bancone dove viene servita la birra della peggior classe, annacquata spudoratamente, e chiede con la voce tremolante dove, quando ed in che moda possa parlare con Lui.
Lui. Il Sussurratore. Si dice che sia uno dei miglior 'professionisti' di Crime Alley. E' raro che parli, ma solo che... sussurri. Un tipo caratteristico. Il barista dice all'uomo perbene che se un damerino come lui cerca guai, è proprio quello il tipo giusto. Ridendo come se abbia appena sentito la barzelletta del secolo, lo conduce in un ufficio privato lasciando per un istante gli ubriaconi del bar da soli.
E Lui era lì. Al Sussurratore aspetta un lavoro particolare. Il committente è Wallace Sage, ormai da più di un mese al centro di uno scandalo giudiziario che lo vede implicato come il mandante dell'omicidio dei suoi stessi collaboratori aziendali. A confessare e ad accusarlo come mandante un pesce piccolo della criminalità organizzata, killer italo-americano di nome D'Abbraccio. Un caso particolare. Un killer professionista pestato a sangue e con tale violenza fino ad essere costretto a confessare.
Il Sussurratore sorride sotto la maschera di metallo, ed ascolta.
Adesso.
Il cappuccio e la maschera mi nascondono il viso, i muscoli sono piegati mentre mi sporgo di lato ad osservare il vicolo sotto di me. E' una notte tranquilla. C'è qualcosa che non va. Su questo tetto ci sono due sgabuzzini delle scope e due prese d'aria. Il vento ha cominciato a battere su un quinto oggetto. Mi scanso di lato appena in tempo per evitare l'affondo di una katana. Mi volto. E' lì che mi osserva con quegli occhi vitrei come farebbe un turco affamato con un kebab. La katana è di ottima fattura, forgiata in giappone, ha cinquant'anni circa. L'armatura è coreana. Schivo altri due affondi, mi concentro trattenendo il respiro e facendo scattare il riflesso del tuffatore. Un paio di giravolte mi portano dietro ad uno degli sgabuzzini.
Gli lancio contro un paio di shuriken, ma quel marpione semplicemente li para con quei parapolsi. Non mi sottraggo certo ad un corpo a corpo. Gli corro contro, scivolo lungo la superficie appiccicosa del tetto, lui con un saltello schiva il mio attacco. Mi rialzo, pronto. Miro alle cosce, colpisco le ginocchia e lui si inginocchia dolorante.
Devo disarmarlo ma... era una finta. Per poco non mi asporta il fegato con quella spada. Continua a pressarmi. Non ho mai visto nessuno combattere così. Quanti stili di combattimento conosce? Karate, judo, jeet kune do...
Ho indietreggiato fino al cornicione. Sto per cadere giù...
Un altro fendente. Disperato, gli afferro il braccio e lo spingo di sotto.
Mentre precipita giù non caccia un urlo. Ma lo schianto con il suolo rimbomba in tutto il vicolo.
Mai uccidere. Me l'ero ripromesso. Resto lì per qualche secondo ad osservare la sagoma scompostamente riversa al suolo, poi salto sul cornicione successivo. Il mantello scarlatto è bagnato dalla luce lunare.
Al mio posto un eroe dei fumetti avrebbe trovato tredici risoluzioni per vincere lo scontro senza ricorrere all'omicidio.
Devo migliorare.
mercoledì 24 agosto 2011
Settimana Uno - Fastest Man Alive
Nigel. Un inglese ritardato, alto due metri, sociopatico e cannibale. Ormai è diventato una delle presenze più caratteristiche a Sing Sing. La sua firma sulla scena del delitto era palese, per tutti quelli della scientifica. Nigel è così, non fa nulla per rendersi più "discreto". Proprio non ci arriva con la testa. Tutti noi sapevamo già a chi dare la caccia, ma qualcuno ci ha battuti sul tempo. Sembra che questo tizio si diverta a mettere in ridicolo l'NYPD. Come ha fatto ad essere così veloce e a portarsi appresso uno della stazza di Nigel, e i due bambini rapiti?
La Lince...
La Lince...
Robin Freeman è un buon uomo. Probabilmente uno dei pochi nel NYPD. Dovrò guadagnarmi la sua fiducia.
Sono le quattro del mattino di uno splendido sabato. Un camion portavalori di una delle più importanti banche dello stato è stato dirottato da una banda di malviventi ceceni. Ordinaria amministrazione.
Attivo i comandi, così che l'hyper adapter cominci a sollevarsi e a volare a raso terra. Spingo il piede sull'acceleratore, schivo le automobili che mi arrivano controsenso, mi accecano con i lampeggianti, mi stordiscono con i clacson.
Cavolo, devo proprio dormire.
<Freeman!>, mi urla contro Floss. Mi alzo dalla mia scrivania, osservo l'orario. Le quattro del mattino. Che cavolo sta succedendo?
<Un inseguimento sulla Settima, Freeman! Dei ceceni hanno dirottato un cazzo di camion portavalori, hanno fatto una strage, ed ora cercano di portare quel camion fuori da Manh...>, Floss riceve una chiamata. Testimoni oculari, a quanto sembra.
<Perfetto, ci si mettono pure gli UFO!>
Penso di essere troppo vecchio per questo lavoro.
Affianco il camion. I cattivi mi sparano contro, ma l'hyper adapter non ne risente. Imposto i cannoni laterali destri del veicolo, e miro verso il conducente. Due pallettoni di gas sonnifero spaccano i vetri della vettura, ed in un attimo l'abitacolo è pieno di gas. Il camion comincia a sbandare. Devo muovermi.
L'hyper adapter si solleva sul tetto del camion. Imposto il magnete, e l'hyper adapter ed il camion si fondono. Bene, ora lo manovro io. Comincio a decellerare, parcheggiando il camion impeccabilmente lungo il marciapiede. Le bocche spalancate della gente mi ripagano del mal di testa.
<Chiunque tu sia, ti ordiniamo di abbandonare questo veicolo non identificato e di venire fuori con le mani alzate!>, grida un agente di polizia su una volante appena sopragiunta. Mi sollevo dal camion, e lascio che l'hyper adapter tocchi il suolo di Manhattan.
Fumogeni. In un attimo l'hyper adapter viene occultato dal fumo. Imposto la spinta verticale, ed un battito di ciglia dopo sono oltre la coltre di nuvole sopra Manhattan. All'interno dell'abitacolo del conducente, dentro il guscio di uno dei pallettoni che contenevano il gas sonnifero, i rispettabili colleghi del NYPD troveranno un biglietto della Lince, che pregherà loro di non ringraziarlo troppo.
Cavolo, mi ci vuole un té. Spero che Bernie mi stia aspettando in piedi.
Floss mi convoca nel suo ufficio.
<Intralcio alla legge, Freeman. Voglio che tu organizzi una squadra per stanare questa Lince del cazzo. Questa troia ha bisogno di essere sbattuta in galera. Ci siamo intesi, sergente?>
Si prospetta un'altra settimana di fuoco.
venerdì 19 agosto 2011
Settimana Uno - Training
Supereroi. Un ragazzino cresce all'ombra della loro gloria, seguendo con trepidazione ogni loro avventura. Ciò che interessa al ragazzino non è la solita domanda: "riuscirà il nostro eroe a farla franca anche questa volta?". No. Il ragazzino sa benissimo che l'eroe non perderà mai. Ciò che gli interessa è come l'avventuriero in costume riuscirà a sfuggire alla trappola del cattivo, in quale spettacolare maniera.
Ecco, questo è più o meno un mio autoritratto vecchio di circa vent'anni. Mi chiamo Robin Freeman. Amavo ed amo i supereroi per il modo in cui l'uomo, indossando la maschera, riusciva a trasfigurarsi in qualcosa di leggendario e mitico. Mitologia del XX Secolo. Nel mondo dei supereroi, tutto è mitologia.
Così come amavo i supereroi, alla stessa maniera odiavo i bulli. Cliché dei cliché, da piccolo ero perseguitato dai bulli. Per uno scricciolo come me, non è stato facile crescere nel Queens, a New York. Li odiavo per come pensassero di avere il diritto di prendermi a ceffoni soltanto perché più grossi di me. Avevano un divertimento assicurato, e la loro coscienza non ne risentiva affatto. Mentre loro se ne vantavano ridendo con le ragazzine, io ero a casa a piangere. Più di una volta mi sono sorpreso a fantasticare su delle loro possibili morte violente ad opera mia. Avevo tutti i motivi del mondo per odiarli. Eppure c'erano loro, che dalle pagine di quei fumetti mi intimavano con un sorriso di non oltrepassare mai quella sottilissima linea, di non diventare uno di loro, di sorgere e di elevarmi dal loro marciume, più... splendente che mai.
Ricordo ancora il mio primo fumetto... Pulp FictionS N. 27. Era il numero d'esordio di un nuovo avventuriero mascherato. Lo trovai in un edicola piuttosto malmessa, sormesso da dei giornaletti porno. Scartando le tette poco avvenenti di quelle pornostar ormai in pensione, rimasi folgorato dai colori scuri, ma allo stesso tempo rassicuranti, di quell'uomo mascherato, che con decisione e forza colpiva con un destro micidiale un nazista. Restai lì a contemplare quella figura mitologica per qualche minuto buono, prima che l'edicolante mi chiedesse con non molta educazione se fossi interessato o no a comprare quella merda. Non esitai, e corsi a casa più veloce che potessi. Mi infilai sotto le coperte e feci conoscenza con quella meraviglia mascherata. Il mio primo fumetto, il primo di una lunga serie.
Crebbi seguendo con tenacia gli insegnamenti morali dei supereroi, trasferendomi a Baltimora con i miei, e prima che me ne rendessi conto, divenni un adulto. La giustizia e il senso del dovere era l'unica cosa che sentissi mia. Ma anche un romantico come me sapeva bene che indossare una maschera ed uscire alle 3 del mattino nella speranza di acchiappare dei criminali era del tutto impensabile. Così mi arruolai al Distretto di Polizia di Baltimora. E presto venni a patti con la realtà.
Rapina a mano armata, un pomeriggio sul tardi. Un fastfood, due ragazzi, neri. Escono entrambi dal fastfood come forsennati, correndo. Sono già accerchiati dalle volanti della polizia. Io sono in una di quelle. Stringo con determinatezza la pistola, pregando Dio di non doverla usare. Non ho superpoteri, non ho la supervelocità, non posso arrivare prima della polizia, disarmare quei due ragazzi e semplicemente sparire oltre l'orizzonte. Uno dei due non avrà neanche quattordici anni, l'altro è sulla ventina. Quello grosso comincia a sparare come un matto, gli agenti sono costretti a ripararsi dietro le macchine. Io cerco di prendere la mira, miro al ginocchio di quello grosso.
Bang. Bang.
A terra, cade il quattordicenne. Non ha neanche il tempo di chiedersi perché. Resto lì come un'idiota ad osservare con raccapriccio la sagoma del ragazzino. Sembra una bambola rotta.
Dopo aver chiesto il trasferimento a New York, penso al giustiziere mascherato che prendeva a pugni il nazista. Dov'eri? E' solo una domanda che mi tiene ancora sveglio la notte.
L'orologio a parete segna mezzanotte meno cinque. Mi infilo i calzoni e gli stivali. Lascio che la cintura mi attraversi la vita. Indosso la maschera appiccicandola al viso con del lattice. La sua superficie fredda e nera mi ricopre il naso, gli zigomi, parzialmente la fronte. Faccio aderire bene il cappuccio sulla testa, infilo i guanti, mentre Bernie mi osserva. Mi chiede come facessi a sapere di William Stryker. Gli rispondo che un uomo della posizione di Mangrove Pierce viene a sapere di molte cose, al club dei gentiluomini di New York. Spesso dal detentore stesso del segreto. Sage si confidò con me, tra un bicchiere di vodka e l'altro. Mentre venivo inondato dal suo alito puzzolente, lui stesso mi diceva, ridacchiando completamente sbronzo, del patto economico stretto con Stryker e Olfren. Poche settimane dopo, Olfren cadde misteriosamente vittima di uno squalo, sul suo yatch. E poco dopo, Stryker si suicidò. Non mi è mai risultato difficile fare due più due.
Fuori, la notte è fredda e minacciosa. La radiolina gracchia, sta intercettando la radio del NYPD. Caso di rapimento nell'Upper West Side di Manhattan. Sono scomparsi due bambini. Il rapitore ha ucciso la madre, mentre il padre era al lavoro. Ha lasciato segni di violenza sul cadavere della madre, e segni di morsi.
So già dove cercare.
Prima che indossassi questo mantello, per anni mi sono finto uno di loro. Mi sono calato nella loro merda, fingendomi uno di loro, venendo a conoscenza di individui uno più curioso dell'altro. Nigel è un inglese cannibale alto più o meno due metri, con una malattia all'epidermide che lo rende fastidiosamente simile ad una specie di lucertola umana. Ascoltavo con interesse i discorsi traboccanti di terrore dei più innocui criminali di New York, mentre mi raccontavano di Nigel. Si nasconde nelle fogne vicino Central Park. Entra ed esce dalla galera. Non esattamente uno stratega.
Mi nascondo tra le ombre, e lo trovo lì, in quel vecchio incrocio della metro abbandonato più o meno da cinquant'anni. I bambini sono legati ad un palo, mentre lui va avanti e indietro, come un mostro in gabbia. Gli tiro addosso uno shuriken, gli si va ad infilzare nella grossa schiena piena di brufoli e bolle. Urla come un matto.
<Chi cazzo è? Chi cazzo credi di essere per venire fino a casa mia, mongoloide del cazzo?>
Si allontana dai bambini in cerca del nemico. Io mi avvicino ai bambini. Sento con disgusto il suo puzzo riavvicinarsi. Stanotte non ci sarà altro squallore.
<Ma che cazzo sei? Un altro frocio in costume? Cristo, ne mancava un altro. Hai idea di chi sono io, frocio? Hai idea di con chi stai avendo a che fare? Hai idea di cosa sono io?>
<Allenamento.>
Lascio Nigel e i due bambini fuori la stazione di polizia più vicina, assieme ad un biglietto. La notte urla di miseria e dolore, e mentre osservo i grattacieli di questa città, mi sento come quell'idiota che cerca di svuotare l'oceano con un secchiello giocattolo.
Comincia a piovere.
Ecco, questo è più o meno un mio autoritratto vecchio di circa vent'anni. Mi chiamo Robin Freeman. Amavo ed amo i supereroi per il modo in cui l'uomo, indossando la maschera, riusciva a trasfigurarsi in qualcosa di leggendario e mitico. Mitologia del XX Secolo. Nel mondo dei supereroi, tutto è mitologia.
Così come amavo i supereroi, alla stessa maniera odiavo i bulli. Cliché dei cliché, da piccolo ero perseguitato dai bulli. Per uno scricciolo come me, non è stato facile crescere nel Queens, a New York. Li odiavo per come pensassero di avere il diritto di prendermi a ceffoni soltanto perché più grossi di me. Avevano un divertimento assicurato, e la loro coscienza non ne risentiva affatto. Mentre loro se ne vantavano ridendo con le ragazzine, io ero a casa a piangere. Più di una volta mi sono sorpreso a fantasticare su delle loro possibili morte violente ad opera mia. Avevo tutti i motivi del mondo per odiarli. Eppure c'erano loro, che dalle pagine di quei fumetti mi intimavano con un sorriso di non oltrepassare mai quella sottilissima linea, di non diventare uno di loro, di sorgere e di elevarmi dal loro marciume, più... splendente che mai.
Ricordo ancora il mio primo fumetto... Pulp FictionS N. 27. Era il numero d'esordio di un nuovo avventuriero mascherato. Lo trovai in un edicola piuttosto malmessa, sormesso da dei giornaletti porno. Scartando le tette poco avvenenti di quelle pornostar ormai in pensione, rimasi folgorato dai colori scuri, ma allo stesso tempo rassicuranti, di quell'uomo mascherato, che con decisione e forza colpiva con un destro micidiale un nazista. Restai lì a contemplare quella figura mitologica per qualche minuto buono, prima che l'edicolante mi chiedesse con non molta educazione se fossi interessato o no a comprare quella merda. Non esitai, e corsi a casa più veloce che potessi. Mi infilai sotto le coperte e feci conoscenza con quella meraviglia mascherata. Il mio primo fumetto, il primo di una lunga serie.
Crebbi seguendo con tenacia gli insegnamenti morali dei supereroi, trasferendomi a Baltimora con i miei, e prima che me ne rendessi conto, divenni un adulto. La giustizia e il senso del dovere era l'unica cosa che sentissi mia. Ma anche un romantico come me sapeva bene che indossare una maschera ed uscire alle 3 del mattino nella speranza di acchiappare dei criminali era del tutto impensabile. Così mi arruolai al Distretto di Polizia di Baltimora. E presto venni a patti con la realtà.
Rapina a mano armata, un pomeriggio sul tardi. Un fastfood, due ragazzi, neri. Escono entrambi dal fastfood come forsennati, correndo. Sono già accerchiati dalle volanti della polizia. Io sono in una di quelle. Stringo con determinatezza la pistola, pregando Dio di non doverla usare. Non ho superpoteri, non ho la supervelocità, non posso arrivare prima della polizia, disarmare quei due ragazzi e semplicemente sparire oltre l'orizzonte. Uno dei due non avrà neanche quattordici anni, l'altro è sulla ventina. Quello grosso comincia a sparare come un matto, gli agenti sono costretti a ripararsi dietro le macchine. Io cerco di prendere la mira, miro al ginocchio di quello grosso.
Bang. Bang.
A terra, cade il quattordicenne. Non ha neanche il tempo di chiedersi perché. Resto lì come un'idiota ad osservare con raccapriccio la sagoma del ragazzino. Sembra una bambola rotta.
Dopo aver chiesto il trasferimento a New York, penso al giustiziere mascherato che prendeva a pugni il nazista. Dov'eri? E' solo una domanda che mi tiene ancora sveglio la notte.
L'orologio a parete segna mezzanotte meno cinque. Mi infilo i calzoni e gli stivali. Lascio che la cintura mi attraversi la vita. Indosso la maschera appiccicandola al viso con del lattice. La sua superficie fredda e nera mi ricopre il naso, gli zigomi, parzialmente la fronte. Faccio aderire bene il cappuccio sulla testa, infilo i guanti, mentre Bernie mi osserva. Mi chiede come facessi a sapere di William Stryker. Gli rispondo che un uomo della posizione di Mangrove Pierce viene a sapere di molte cose, al club dei gentiluomini di New York. Spesso dal detentore stesso del segreto. Sage si confidò con me, tra un bicchiere di vodka e l'altro. Mentre venivo inondato dal suo alito puzzolente, lui stesso mi diceva, ridacchiando completamente sbronzo, del patto economico stretto con Stryker e Olfren. Poche settimane dopo, Olfren cadde misteriosamente vittima di uno squalo, sul suo yatch. E poco dopo, Stryker si suicidò. Non mi è mai risultato difficile fare due più due.
Fuori, la notte è fredda e minacciosa. La radiolina gracchia, sta intercettando la radio del NYPD. Caso di rapimento nell'Upper West Side di Manhattan. Sono scomparsi due bambini. Il rapitore ha ucciso la madre, mentre il padre era al lavoro. Ha lasciato segni di violenza sul cadavere della madre, e segni di morsi.
So già dove cercare.
Prima che indossassi questo mantello, per anni mi sono finto uno di loro. Mi sono calato nella loro merda, fingendomi uno di loro, venendo a conoscenza di individui uno più curioso dell'altro. Nigel è un inglese cannibale alto più o meno due metri, con una malattia all'epidermide che lo rende fastidiosamente simile ad una specie di lucertola umana. Ascoltavo con interesse i discorsi traboccanti di terrore dei più innocui criminali di New York, mentre mi raccontavano di Nigel. Si nasconde nelle fogne vicino Central Park. Entra ed esce dalla galera. Non esattamente uno stratega.
Mi nascondo tra le ombre, e lo trovo lì, in quel vecchio incrocio della metro abbandonato più o meno da cinquant'anni. I bambini sono legati ad un palo, mentre lui va avanti e indietro, come un mostro in gabbia. Gli tiro addosso uno shuriken, gli si va ad infilzare nella grossa schiena piena di brufoli e bolle. Urla come un matto.
<Chi cazzo è? Chi cazzo credi di essere per venire fino a casa mia, mongoloide del cazzo?>
Si allontana dai bambini in cerca del nemico. Io mi avvicino ai bambini. Sento con disgusto il suo puzzo riavvicinarsi. Stanotte non ci sarà altro squallore.
<Ma che cazzo sei? Un altro frocio in costume? Cristo, ne mancava un altro. Hai idea di chi sono io, frocio? Hai idea di con chi stai avendo a che fare? Hai idea di cosa sono io?>
<Allenamento.>
Lascio Nigel e i due bambini fuori la stazione di polizia più vicina, assieme ad un biglietto. La notte urla di miseria e dolore, e mentre osservo i grattacieli di questa città, mi sento come quell'idiota che cerca di svuotare l'oceano con un secchiello giocattolo.
Comincia a piovere.
mercoledì 13 luglio 2011
Settimana Uno - Un insensato suicidio (parte seconda)
12000 anni fa.
L'uomo era rannicchiato accanto al fuoco, nella foresta. Da tempo le tenebre erano calate sulla terra, e i versi delle creature della notte lo accerchiavano e lo terrorizzavano. L'Uomo si rannicchiò su sé stesso, come un cucciolo, e strisciò accanto al fuoco. Aveva freddo e paura.
Fu un oscuro richiamo ad attirare la sua attenzione. Con il sangue raggelato nelle vene, l'uomo scrutò in quella profonda oscurità, oltre il fuoco. Un volto malefico lo scrutava e gli sorrideva di rimando. Il Male si presentò all'uomo, nel buio della notte.
Ma l'uomo seppe che il Male è qualcosa di questa terra, e come qualsiasi cosa di questa terra può essere spaventata e sconfitta. E fu così che l'uomo affondò le mani nel fango bagnato accanto ai suoi piedi, e se lo passò intorno agli occhi, sugli zigomi, sul naso.
Non era più un uomo, ma l'Uomo, e trasfigurato da quel simbolo di coraggio impugnò la lancia ed affrontò il male.
New York, adesso.
Appollaiato accanto ad un gargoyle di pietra, con il cappuccio calato sul viso, attende paziente come un ragno, che osserva la mosca intrappolarsi da sola nella ragnatela. Camminano in gruppo, come ci si può aspettare da questi soggetti. Il capetto del gruppo è Willy D'Abbraccio, killer a pagamento di origini italiane, uno dei gradini più bassi della catena alimentare.
Sono cinque calare dall'alto contare sull'effetto sorpresa disarmare per primo il più pericoloso quello armato è un fumatore ha il respiro affannoso i denti gialli le unghie sporche di nicotina fare pressione sulla gabbia toracica colpo netto al plesso solare gancio destro sui denti ammuffiti dal fumo slego il polso faccio pressione sulle ossa calcio al ginocchio destro guarigione fisica sei settimane guarigione psicologica due mesi capacità di impugnare una pistola eliminata passo ai pesci piccoli nascondersi all'ombra mostrarsi all'occorrenza con uno degli shuriken rompo la lampadina che illumina il vicolo li colpisco uno alla volta William Stryker non si è suicidato ho le prove Robin Freeman deve sbrigarsi
Il tizio al telefono gli ha appena detto che dai documenti di William Stryker sarà risultato mancante un attestato che conferma che, in caso di sua morte e quella di un altro tizio, Timothy Olfren, l'intero pacchetto azionario della Apex Chemicals sarà assegnato ad un certo Wallace Sage.
A quanto pare Sage aveva stipulato una sorta di triumvirato economico con Stryker ed Olfren. Ma Sage voleva il potere della Apex tutto nelle sue mani, un desiderio così grande da ordire l'esecuzione dei suoi colleghi. Ordinando al killer di sottrarre dalla scena del crimine l'attestato, così da non farlo rinvenire dalla polizia e destare alcun sospetto nei suoi confronti, sarebbe stato libero di condurre i suoi affari alla Apex sottobanco, nella più totale tranquillità. Ma come quel pazzo a telefono riesca a sapere di tutto questo, Freeman proprio non riesce a spiegarselo. Perciò gli ha chiuso il telefono in faccia, facendo finta di nulla. Uno scherzo di pessimo gusto? Chi diavolo è questo tizio?
<Stammi a sentire, D' Abbraccio. Sei una persona rozza e goffa, la tua firma sulla scena del delitto era palese come un omosessuale che si finge etero. Che cos'hai qui in tasca? Aspetta... fammi vedere... ehi, è il documento di Sage, Stryker ed Olfren. Direttamente dalla scrivania di Stryker, uh? Stammi a sentire. Stammi a sentire. Sono finiti i tempi in cui gli idioti come te la facevano franca. La cosa che mi ha fatto sempre incazzare di voi imbecilli non è tanto... non è tanto il commettere crimini in sé... è il sentirsi invincibili ed intoccabili, come tu credi di essere, D'Abbraccio. Non lo sei. Spiega un po' alla polizia come un topo di fogna come te ha ricevuto questo documento.>
<Sai, è strano, Freeman...>
<Cosa, commissario?>
<Qualche giorno fa, un altro pezzo grosso della Apex, un certo Olfren... beh, si era concesso 'sto fine settimana in relax, sul suo yatch da ultra miliardario... è finito in mare, sbranato da uno squalo.>
<Ah ... sul serio?>
<Signori?>
Il sergente Freeman e il commissario Floss si voltano all'improvviso verso l'ingresso dell'appartamento. Un giovane agente di polizia li osserva piuttosto preoccupato.
<C'è... c'è un tipo, qui fuori. Dice di chiamarsi Abbraccio, lo hanno pestato a sangue. Vuole confessare l'omicidio di Stryker e mostrare alla polizia l'attrezzatura con cui dal tetto dell'edificio si è calato nell'appartamento della vittima. Il mandante è un tipo della Apex, un certo Sage. Wallace Sage.>
L'uomo era rannicchiato accanto al fuoco, nella foresta. Da tempo le tenebre erano calate sulla terra, e i versi delle creature della notte lo accerchiavano e lo terrorizzavano. L'Uomo si rannicchiò su sé stesso, come un cucciolo, e strisciò accanto al fuoco. Aveva freddo e paura.
Fu un oscuro richiamo ad attirare la sua attenzione. Con il sangue raggelato nelle vene, l'uomo scrutò in quella profonda oscurità, oltre il fuoco. Un volto malefico lo scrutava e gli sorrideva di rimando. Il Male si presentò all'uomo, nel buio della notte.
Ma l'uomo seppe che il Male è qualcosa di questa terra, e come qualsiasi cosa di questa terra può essere spaventata e sconfitta. E fu così che l'uomo affondò le mani nel fango bagnato accanto ai suoi piedi, e se lo passò intorno agli occhi, sugli zigomi, sul naso.
Non era più un uomo, ma l'Uomo, e trasfigurato da quel simbolo di coraggio impugnò la lancia ed affrontò il male.
New York, adesso.
Appollaiato accanto ad un gargoyle di pietra, con il cappuccio calato sul viso, attende paziente come un ragno, che osserva la mosca intrappolarsi da sola nella ragnatela. Camminano in gruppo, come ci si può aspettare da questi soggetti. Il capetto del gruppo è Willy D'Abbraccio, killer a pagamento di origini italiane, uno dei gradini più bassi della catena alimentare.
Sono cinque calare dall'alto contare sull'effetto sorpresa disarmare per primo il più pericoloso quello armato è un fumatore ha il respiro affannoso i denti gialli le unghie sporche di nicotina fare pressione sulla gabbia toracica colpo netto al plesso solare gancio destro sui denti ammuffiti dal fumo slego il polso faccio pressione sulle ossa calcio al ginocchio destro guarigione fisica sei settimane guarigione psicologica due mesi capacità di impugnare una pistola eliminata passo ai pesci piccoli nascondersi all'ombra mostrarsi all'occorrenza con uno degli shuriken rompo la lampadina che illumina il vicolo li colpisco uno alla volta William Stryker non si è suicidato ho le prove Robin Freeman deve sbrigarsi
Il tizio al telefono gli ha appena detto che dai documenti di William Stryker sarà risultato mancante un attestato che conferma che, in caso di sua morte e quella di un altro tizio, Timothy Olfren, l'intero pacchetto azionario della Apex Chemicals sarà assegnato ad un certo Wallace Sage.
A quanto pare Sage aveva stipulato una sorta di triumvirato economico con Stryker ed Olfren. Ma Sage voleva il potere della Apex tutto nelle sue mani, un desiderio così grande da ordire l'esecuzione dei suoi colleghi. Ordinando al killer di sottrarre dalla scena del crimine l'attestato, così da non farlo rinvenire dalla polizia e destare alcun sospetto nei suoi confronti, sarebbe stato libero di condurre i suoi affari alla Apex sottobanco, nella più totale tranquillità. Ma come quel pazzo a telefono riesca a sapere di tutto questo, Freeman proprio non riesce a spiegarselo. Perciò gli ha chiuso il telefono in faccia, facendo finta di nulla. Uno scherzo di pessimo gusto? Chi diavolo è questo tizio?
<Stammi a sentire, D' Abbraccio. Sei una persona rozza e goffa, la tua firma sulla scena del delitto era palese come un omosessuale che si finge etero. Che cos'hai qui in tasca? Aspetta... fammi vedere... ehi, è il documento di Sage, Stryker ed Olfren. Direttamente dalla scrivania di Stryker, uh? Stammi a sentire. Stammi a sentire. Sono finiti i tempi in cui gli idioti come te la facevano franca. La cosa che mi ha fatto sempre incazzare di voi imbecilli non è tanto... non è tanto il commettere crimini in sé... è il sentirsi invincibili ed intoccabili, come tu credi di essere, D'Abbraccio. Non lo sei. Spiega un po' alla polizia come un topo di fogna come te ha ricevuto questo documento.>
<Sai, è strano, Freeman...>
<Cosa, commissario?>
<Qualche giorno fa, un altro pezzo grosso della Apex, un certo Olfren... beh, si era concesso 'sto fine settimana in relax, sul suo yatch da ultra miliardario... è finito in mare, sbranato da uno squalo.>
<Ah ... sul serio?>
<Signori?>
Il sergente Freeman e il commissario Floss si voltano all'improvviso verso l'ingresso dell'appartamento. Un giovane agente di polizia li osserva piuttosto preoccupato.
<C'è... c'è un tipo, qui fuori. Dice di chiamarsi Abbraccio, lo hanno pestato a sangue. Vuole confessare l'omicidio di Stryker e mostrare alla polizia l'attrezzatura con cui dal tetto dell'edificio si è calato nell'appartamento della vittima. Il mandante è un tipo della Apex, un certo Sage. Wallace Sage.>
lunedì 11 luglio 2011
Settimana Uno - Un insensato suicidio (parte prima)
Dodici anni fa.
Mangrove Pierce lasciò che la sua mano sinistra scivolasse fra gli alti fili d'erba di Moorish Island.
Chiuse gli occhi e respirò l'odore del mare.
Risalì il sentiero che dalla spiaggia conduceva direttamente alla casa in collina.
Nel crepuscolo incipiente un brivido gli percorse la schiena, come un viscido serpente. Il sole stava cominciando a tuffarsi tra le acque scure dell'oceano, e Mangrove sentì lo stomaco aggrovigliarsi man mano che si avvicinava alla villa. Gli scappò un sorriso amaro. Quella casa era stata costruita secondo i più alti standard di modernità e sicurezza. Era la tipica abitazione che si sarebbe potuta trovare in un quartiere residenziale di New York, non una casa ammuffita da film horror. Eppure...
Il giovane prese un profondo sospiro. La villetta lo chiamava, lo attirava, come un inesorabile buco nero.Gli ampi e moderni corridoi illuminati, e neanche la minima traccia di nascondigli segreti le davano quel tocco inquietante che Mangrove aveva provato la prima volta che aveva varcato la soglia d'ingresso.
Le ombre cominciavano a cavalcare il cielo, e il giovane si ritrovò sotto il portico della villetta. Osservò per qualche istante la porta semiaperta. Nessun rumore proveniva dall'interno buio della casa.
Posò una mano sulla porta d'ingresso e la aprì lentamente. Gli ultimi raggi di luce del sole morente disegnarono una figura contorta sul pavimento in legno dell'abitazione.
Mangrove si diresse in salotto, per dare un ultimo saluto a sua madre. E lì, scompostamente abbandonato su una poltroncina da lettura, attendeva il cadavere di sua madre, con la gola sgozzata e gli occhi vitrei.
Il ragazzo represse un singhiozzo, strinse i denti e posò dolcemente i polpastrelli sugli occhi della madre, chiudendoglieli.
Una lacrima bagnò il tappeto indiano del salotto, e Mangrove, lasciatosela alle spalle, si diresse al piano di sopra. I suoi passi pesanti risuonarono per tutta la casa.
Passò accanto alle altre stanze, chiuse, in cui erano stati riposti gli altri cadaveri. I suoi occhi erano puntati sulla porta in fondo al corridoio, la porta di camera sua. La discesa agli inferi aveva l'aspetto di un ampio corridoio di una villetta estiva. Tutto ciò si sarebbe concluso in quella stanza, lo sapeva bene.
Tra pochi giorni sarà il tuo diciottesimo compleanno, bambino mio. Passeremo il fine settimana in una villetta deliziosa. L'adorerai!
Una volta superata la soglia di quella camera Mangrove osservò con raccapriccio la fune che era stata appesa al soffitto e, sotto di essa, come un boia che attende impassibile un condannato a morte al patibolo, c'era una sedia.
Emise un flebile lamento di dolore. Salì sopra la sedia e, con mani tremanti, si passò la fune intorno al collo.
Silenzio. Interrotto da passi così flebili che non avrebbe mai avvertito se non ci fosse stato quel silenzio innaturale che regnava su tutta la villa.
Alle sue spalle, l'omicida attendeva.
Non siamo geneticamente predisposti per la sconfitta, Mangrove.
Buon compleanno, figliolo. Ora, sei Uomo.
Mangrove Pierce si sfilò la fune dal collo, scese dalla sedia e non tremò più. Serrò i pugni, mentre tuoni scuotevano il cielo. Fuori cominciò a piovere. Al buio di quella stanza, preda e predatore restarono immobili e muti.
Scacco... ora tocca a me.
Mangrove Pierce si voltò e abbandonò la stanza, passando accanto all'omicida che ben si confondeva con le ombre della camera. Scese le scale senza voltarsi indietro. Passo febbrile, occhi dilatati e iniettati di sangue, sudore freddo che gli imperniava i vestiti. La pioggia lo battezzò come Uomo.
Non c'erano imbarcazioni o aeroplani con cui abbandonare l'isola. Mentre osservava il mare agitato e i flutti schiumosi e impazziti che oscuravano il cielo, Mangrove si gettò senza esitazione tra le fredde acque buie dell'oceano.
New York, adesso.
<Quindi fammi capire bene... per te Michael Jackson non s'è rovinato con tutti quegli interventi?>
<Assolutamente. Se fossi un negro, non ci penserei due volte a diventare bianco.>
Una tavola calda qualunque, a New York. Robin Freeman e Clint Creed sono lì, seduti al bancone, a sorseggiare ciascuno una tazza di caffé. Stanno prendendo una pausa dal lavoro di poliziotti, ed intanto discutono di musica pop. Il sergente Freeman si scambia un'occhiata divertita con la giovane cameriera lentigginosa al di là del bancone.
<Mah, per me fa buona musica... è un peccato che si sia ridotto così.>
<Tra qualche anno sbucherà fuori qualche altro soggetto che manderà Jackson dritto nel dimenticatoio, e tutti si saranno scordati del povero negretto picchiato dal padre e desideroso di rivalsa.>
<Cristo, Creed. Ma ce l'hai un cuore?>
<Comporta spese, Freeman.>
La ricetrasmittente di Freeman comincia a gracchiare, con quel rumore inconfondibile che porta solo guai.
<ATTENZIONE. ATTENZIONE. A TUTTE LE UNITA' IN ZONA. CONVERGERE PRESSO...> la voce di donna nomina un indirizzo <Caso apparente di suicidio. Attenzione. Attenzione. A tutte le unità in zona. Convergere presso...>
<Ah, che cazzo. Me la fanno mangiare la mia dannata frittella?>, fa Creed.
<Andiamo. Mi stavo giusto annoiando.>
<Tu non sei normale, Freeman.>
I due agenti abbandonano velocemente la tavola calda e, una volta saliti sulla volante, si dirigono verso l'indirizzo. Sono uomini che conoscono il proprio lavoro, e sono abituati a lasciare a metà una tazza di caffé, o le frittelle sul tavolo per correre sulla scena di un crimine. Freeman nota che l'indirizzo si trova in una zona di lusso, gente perbene. Non di certo un ghetto abbandonato da Dio come Crime Alley o Hell's Gate. Altre volanti della polizia attendono sotto il sontuoso condominio, Freeman e Creed sono pronti a visitare la scena del crimine.
Salgono velocemente le scale, mostrando il distintivo ai colleghi. Ad attenderli c'è il commissario Floss: grasso e tozzo, un bel paio di baffoni, sguardo truce da cane da guardia, sempre pronto a ricordare ai sottoposti che poveri sfigati succhia cazzi siano, e che la goccia di sperma da cui sono nati è quella scivolata sulla chiappa sinistra della madre.
<Commissario.>
<Ah, ma chi abbiamo qui. Robin Freeman. La risposta alla domanda che nessuno ha posto.>
<Ho sentito il messaggio... e sono accorso.>
<Caso di suicidio. Era un certo William Stryker, lavorava presso la Apex Chemical. Un pezzo grosso. E qui abbiamo un grosso e strano caso di suicidio. Il tipo qui non aveva motivo per piantarsi la pistola alla tempia. Cazzo, ce li avessi io i suoi fottuti soldi.>
Freeman abbassa lo sguardo aggrottando la fronte, ed i suoi occhi incrociano quelli del cadavere. Un proiettile ha trapassato la testa di Stryker, ed il cadavere sul letto stringe ancora la pistola nella mano destra.
Il sergente Freeman non fa nulla, aspetta semplicemente che gli uomini della scientifica facciano il proprio lavoro, attendendo in disparte.
Ma succede qualcosa di strano. Il telefono di casa Stryker comincia a trillare, lì, in camera da letto. Freeman, perplesso, si avvicina all'apparecchio ed alza la cornetta.
<Pronto?>
<Sì, ho scoperto la luna. Non s'è trattato di suicidio.> , la voce all'altro capo del telefono è graffiante.
Freeman osserva interdetto la cornetta del telefono.
<Ma chi parla?>
<Mi stia a sentire, sergente Freeman. C'è qualcosa che non quadra, nel suicidio di Stryker. Primo, era un affermato uomo d'affari, fedina penale linda e pulita. Quindi, mancanza di movente. Ma ho una prova più convincente. Stryker era mancino, e la pistola è stretta nella mano destra. L'assassino non è un attento osservatore come me. Sergente, osservi il tavolino in salotto. E' alla sinistra del divano, e la tazza da caffé è rivolta col manico verso sinistra. Le penne e i fogli sono a sinistra del telefono di casa perché rispondeva con la destra e prendeva appunti con la sinistra. In cucina la lama del coltello con cui è stata tagliato il pane è sporca dal lato sinistro. E' altamente improbabile che un mancino si spari alla tempia destra, occorrerebbe un notevole sforzo di contorsione, non crede? L'assassino si è intrufolato all'interno dell'appartamento, ha sparato alla tempia della vittima e gli ha lasciato la pistola tra le mani.>
Freeman resta muto come un pesce per qualche istante.
<Senta... io... io non so chi sia... come ha avuto questo numero? E la scena del crimine? L'ha visitata prima degli agenti di polizia... non so cosa diavolo sta succedendo.>
<Non si preoccupi. Dovrà sforzarsi al minimo. Dovrà solo seguire le mie istruzioni.>
<Ma chi diavolo sei?>
<La Lince.>
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