Supereroi. Un ragazzino cresce all'ombra della loro gloria, seguendo con trepidazione ogni loro avventura. Ciò che interessa al ragazzino non è la solita domanda: "riuscirà il nostro eroe a farla franca anche questa volta?". No. Il ragazzino sa benissimo che l'eroe non perderà mai. Ciò che gli interessa è come l'avventuriero in costume riuscirà a sfuggire alla trappola del cattivo, in quale spettacolare maniera.
Ecco, questo è più o meno un mio autoritratto vecchio di circa vent'anni. Mi chiamo Robin Freeman. Amavo ed amo i supereroi per il modo in cui l'uomo, indossando la maschera, riusciva a trasfigurarsi in qualcosa di leggendario e mitico. Mitologia del XX Secolo. Nel mondo dei supereroi, tutto è mitologia.
Così come amavo i supereroi, alla stessa maniera odiavo i bulli. Cliché dei cliché, da piccolo ero perseguitato dai bulli. Per uno scricciolo come me, non è stato facile crescere nel Queens, a New York. Li odiavo per come pensassero di avere il diritto di prendermi a ceffoni soltanto perché più grossi di me. Avevano un divertimento assicurato, e la loro coscienza non ne risentiva affatto. Mentre loro se ne vantavano ridendo con le ragazzine, io ero a casa a piangere. Più di una volta mi sono sorpreso a fantasticare su delle loro possibili morte violente ad opera mia. Avevo tutti i motivi del mondo per odiarli. Eppure c'erano loro, che dalle pagine di quei fumetti mi intimavano con un sorriso di non oltrepassare mai quella sottilissima linea, di non diventare uno di loro, di sorgere e di elevarmi dal loro marciume, più... splendente che mai.
Ricordo ancora il mio primo fumetto... Pulp FictionS N. 27. Era il numero d'esordio di un nuovo avventuriero mascherato. Lo trovai in un edicola piuttosto malmessa, sormesso da dei giornaletti porno. Scartando le tette poco avvenenti di quelle pornostar ormai in pensione, rimasi folgorato dai colori scuri, ma allo stesso tempo rassicuranti, di quell'uomo mascherato, che con decisione e forza colpiva con un destro micidiale un nazista. Restai lì a contemplare quella figura mitologica per qualche minuto buono, prima che l'edicolante mi chiedesse con non molta educazione se fossi interessato o no a comprare quella merda. Non esitai, e corsi a casa più veloce che potessi. Mi infilai sotto le coperte e feci conoscenza con quella meraviglia mascherata. Il mio primo fumetto, il primo di una lunga serie.
Crebbi seguendo con tenacia gli insegnamenti morali dei supereroi, trasferendomi a Baltimora con i miei, e prima che me ne rendessi conto, divenni un adulto. La giustizia e il senso del dovere era l'unica cosa che sentissi mia. Ma anche un romantico come me sapeva bene che indossare una maschera ed uscire alle 3 del mattino nella speranza di acchiappare dei criminali era del tutto impensabile. Così mi arruolai al Distretto di Polizia di Baltimora. E presto venni a patti con la realtà.
Rapina a mano armata, un pomeriggio sul tardi. Un fastfood, due ragazzi, neri. Escono entrambi dal fastfood come forsennati, correndo. Sono già accerchiati dalle volanti della polizia. Io sono in una di quelle. Stringo con determinatezza la pistola, pregando Dio di non doverla usare. Non ho superpoteri, non ho la supervelocità, non posso arrivare prima della polizia, disarmare quei due ragazzi e semplicemente sparire oltre l'orizzonte. Uno dei due non avrà neanche quattordici anni, l'altro è sulla ventina. Quello grosso comincia a sparare come un matto, gli agenti sono costretti a ripararsi dietro le macchine. Io cerco di prendere la mira, miro al ginocchio di quello grosso.
Bang. Bang.
A terra, cade il quattordicenne. Non ha neanche il tempo di chiedersi perché. Resto lì come un'idiota ad osservare con raccapriccio la sagoma del ragazzino. Sembra una bambola rotta.
Dopo aver chiesto il trasferimento a New York, penso al giustiziere mascherato che prendeva a pugni il nazista. Dov'eri? E' solo una domanda che mi tiene ancora sveglio la notte.
L'orologio a parete segna mezzanotte meno cinque. Mi infilo i calzoni e gli stivali. Lascio che la cintura mi attraversi la vita. Indosso la maschera appiccicandola al viso con del lattice. La sua superficie fredda e nera mi ricopre il naso, gli zigomi, parzialmente la fronte. Faccio aderire bene il cappuccio sulla testa, infilo i guanti, mentre Bernie mi osserva. Mi chiede come facessi a sapere di William Stryker. Gli rispondo che un uomo della posizione di Mangrove Pierce viene a sapere di molte cose, al club dei gentiluomini di New York. Spesso dal detentore stesso del segreto. Sage si confidò con me, tra un bicchiere di vodka e l'altro. Mentre venivo inondato dal suo alito puzzolente, lui stesso mi diceva, ridacchiando completamente sbronzo, del patto economico stretto con Stryker e Olfren. Poche settimane dopo, Olfren cadde misteriosamente vittima di uno squalo, sul suo yatch. E poco dopo, Stryker si suicidò. Non mi è mai risultato difficile fare due più due.
Fuori, la notte è fredda e minacciosa. La radiolina gracchia, sta intercettando la radio del NYPD. Caso di rapimento nell'Upper West Side di Manhattan. Sono scomparsi due bambini. Il rapitore ha ucciso la madre, mentre il padre era al lavoro. Ha lasciato segni di violenza sul cadavere della madre, e segni di morsi.
So già dove cercare.
Prima che indossassi questo mantello, per anni mi sono finto uno di loro. Mi sono calato nella loro merda, fingendomi uno di loro, venendo a conoscenza di individui uno più curioso dell'altro. Nigel è un inglese cannibale alto più o meno due metri, con una malattia all'epidermide che lo rende fastidiosamente simile ad una specie di lucertola umana. Ascoltavo con interesse i discorsi traboccanti di terrore dei più innocui criminali di New York, mentre mi raccontavano di Nigel. Si nasconde nelle fogne vicino Central Park. Entra ed esce dalla galera. Non esattamente uno stratega.
Mi nascondo tra le ombre, e lo trovo lì, in quel vecchio incrocio della metro abbandonato più o meno da cinquant'anni. I bambini sono legati ad un palo, mentre lui va avanti e indietro, come un mostro in gabbia. Gli tiro addosso uno shuriken, gli si va ad infilzare nella grossa schiena piena di brufoli e bolle. Urla come un matto.
<Chi cazzo è? Chi cazzo credi di essere per venire fino a casa mia, mongoloide del cazzo?>
Si allontana dai bambini in cerca del nemico. Io mi avvicino ai bambini. Sento con disgusto il suo puzzo riavvicinarsi. Stanotte non ci sarà altro squallore.
<Ma che cazzo sei? Un altro frocio in costume? Cristo, ne mancava un altro. Hai idea di chi sono io, frocio? Hai idea di con chi stai avendo a che fare? Hai idea di cosa sono io?>
<Allenamento.>
Lascio Nigel e i due bambini fuori la stazione di polizia più vicina, assieme ad un biglietto. La notte urla di miseria e dolore, e mentre osservo i grattacieli di questa città, mi sento come quell'idiota che cerca di svuotare l'oceano con un secchiello giocattolo.
Comincia a piovere.
Nessun commento:
Posta un commento