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martedì 25 ottobre 2011

Relazioni

Quando non ho a che fare con serial killer, gangster e stupratori mi piace prendere un bel caffè. Con colleghi, o semplici amici. Questa sera la mia compagnia è piuttosto influente, scommetto che farà di tutto per non farsi notare. Infondo è una persona a modo, nonostante reciti la parte del vip.
Mangrove Pierce. Lo conosco da una vita, è uno dei miei più cari amici. Ci siamo conosciuti in collegio, quando vivevo ancora a New York con i miei. Le nostre famiglie erano entrambe benestanti, di un certo rango sociale. Certo, in quanto a prestigio i Freeman non potevano neanche essere accostati ai Pierce, ma ci conoscemmo entrambi allo stesso collegio nell'Upper West Side di Manhattan.
Decidiamo di incontrarci in una tavola calda qualunque, dall'aspetto amorevole. Il cielo è terso, colmo di nubi. Lo aspetto fuori dal locale, mentre osservo i Newyorkesi andare a zonzo per le strade, persi nelle loro vite. Ognuno pensa di essere il protagonista del film della propria vita ma in questa vita non siamo mai il protagonista. Siamo solo comparse.
Ed eccolo lì. Mangrove Pierce. Arriva con la sua andatura elegante, composta. Indossa un soprabito grigio, le mani coperte da un paio di guanti neri di ottima fattura. I capelli sono neri, scurissimi, pettinati all'indietro, ma non sporchi ed unti di gel. Sono pieni, folti, ben curati. I baffi di Mangrove alla Clark Gable gli donano un look vecchio stile, da star hollywoodiana anni '30. Gli occhi sono il suo particolare più interessante. Intelligenti, accesi, sembra che siano sempre alla ricerca di qualcosa che non riesco a cogliere. Sembrano quasi spiritati. Sono un buon osservatore.


<Spero proprio che qualche paparazzo idiota non ci scatti qualche foto assieme. Mi immagino già i titoli dei peggiori giornaletti di domani: "Mangrove Pierce: scottante relazione omosessuale proibita con il sergente Robin Freeman?">, mi dice.


<Mi stai dando dell'uomo poco piacente?>, gli rispondo con il sorriso sulle labbra, ed assieme entriamo nella tavola calda. Prendiamo posto al bancone. Io ordino un caffè, Mangrove un succo d'arancia ed un cornetto alla crema. Non ha paura di ingrassare, a quanto pare. Glielo faccio notare.


<Faccio parecchia attività fisica.>, mi dice. Parliamo del più e del meno, gli racconto dell'ultima novità in città: la Lince. Un nuovo avventuriero in costume ha fatto il suo ingresso in società, assieme ai vari Specter e Nailer. Non mi piacciono quei due, ma sembrano piacere molto a Clint Creed. Li appoggia, alla sua maniera. 
E mentre gli racconto di uomini mascherati e di mirabolanti superpoteri Mangrove Pierce non batte ciglio. E' incredibile. Quando ero ragazzino non so cosa avrei dato per vedere dal vivo un vero supereroe. E' per questo che mi sono arruolato in polizia, per servire la legge. Credevo che indossare una maschera fosse impossibile e pericoloso, oltre che da idioti. Dovevo arrivarci, che il mondo fosse pieno di idioti.


<Questa città andrà a rotoli.>, mi dice Mangrove, mentre sorseggia con pacatezza il suo succo d'arancia. Credo di sapere il perché, e lui mi risponde prima che possa chiederglielo.


<Sono solo un branco di fascisti, questi eroi mascherati. Individui disturbati, che si elevano a giudice, giuria e boia di poveri dementi che avrebbero soltanto bisogno di un giusto processo. E... aspetta. So che vuoi dire. Se uno di loro stuprasse tua madre, saresti ancora a favore del giusto processo?  Tu cosa preferiresti? Il giusto processo o l'anarchia dilagante per le strade, dove ognuno si fa giustizia da solo? Probabilmente non tutti sono adatti ad essere un eroe in costume. Lui è il violino fuor di chiave. Lui è la falla nel sistema.>


Se stuprassero tua madre... il solito Mangrove. I suoi genitori sono morti parecchio tempo fa, quando aveva diciott'anni. La notizia divenne uno scandalo e restò sulla bocca di tutti per parecchio tempo. Le vere cause della morte non sono mai state rivelate.


<Io non ho detto niente...>, gli dico. Non gli stacco gli occhi di dosso.


<A volte gli eroi in costume hanno una motivazione, un dramma, alla base delle loro azioni, sai?>, gli dico. Non mi preoccupo di risultare scortese per la non velata allusione. Mangrove ama le persone schiette.


<Ti riferisci a me? Non è il mio caso. Io mi sono ripreso, Robin.> , ora mi guarda anche lui. Il suo sguardo è un baratro. 


<Tu ti sei ripreso, Robin?>


Penitenziario di Stato, New York. Ieri pomeriggio.
L'ora di visite. L'uomo perbene che si era recato alla Cantina del gatto nero è faccia a faccia con Wallace Sage. Due collaboratori fidati, padrone e servo, che discutono su come siano andate le cose. L'ambiente è silenzioso ed asettico, l'uomo perbene è un docile sottomesso. 
Il Sussurratore era riuscito a scovare la Lince senza problemi; se durante i primi tempi dei suoi avvistamenti l'avventuriero in costume sembrava operare su tutta Manhattan, adesso pareva stabilmente agire ad Hell's Gate. Trent'anni fa Hell's Gate non aveva questo nome, bensì era conosciuta come Wellfare Gate. Doveva essere uno dei quartieri di Manhattan più lussuosi. Ma nulla va mai come ci si aspetta. Cancellata la 'w' e 'fare' a causa della mano pesante dei teppisti, 'Wellfare' è diventato 'Hell's'. La tana della Lince, e lì il Sussurratore l'ha scovata.
Ma è rimasto ucciso. L'uomo perbene ha assistito al tutto stringendo tra le mani un binocolo, tenendosi in disparte.
Wallace Sage: un uomo cresciuto con la convinzione che tutto ciò che vuole possa ottenerlo. Ora ciò che vuole è la morte di quell'uomo.
Dietro la facciata da onesto uomo d'affari, si cela un burattinaio della vita criminale. Molti, troppi agganci.
<I Letali 69.>, dice infine con voce fredda.


Hell's Gate, adesso.
Mi fondo tra le architetture gotiche e decadenti di Hell's Gate. Mi mimetizzo tra gargoyles di pietra e colonnati corinzi. Il vento notturno mi sferza il viso, il mantello scarlatto mi fa sembrare un angelo. La maschera nera che mi copre il viso mi ricorda che Mangrove Pierce non esiste. Non questa notte. In nessuna di queste notti. Mi getto nel vuoto, e sento i clacson inondare le strade sotto di me. Osservo questi piccoli uomini con il cipiglio di un dio indifferente. Alzo il braccio destro, e dal polsino del guanto fuoriesce un rampino. Infilza il cemento di un edificio, oscillo nel vuoto come un circense pazzo.
Sento delle urla. Una ragazza è in pericolo, in un vicolo poco lontano. E' orientale, giapponese. Anche il suo aggressore. Un tipo pelato le punta alla gola un coltello. Prima che possa fare qualcosa... semplicemente scompare. Dov'è finito? Una proiezione mentale, una trappola?
Sembra di no. Ai miei piedi c'è un biglietto... mi chino, per raccoglierlo. E' un locale. Probabilmente l'ha perso l'aggressore. 'Il Covo di Tai Mien: lounge bar and happiness'.
Tai Mien. In Giapponese significa maschera.
Mi fiondo nel locale. Sfondo una finestra, ma sembra deserto, al buio. All'improvviso, le luci si accendono.
Dei giapponesi vestiti con smoking, armati di katane e dal viso coperto da una maschera simile alla mia irrompono da una saletta urlando come degli indemoniati. Il capo sembra essere il pelato. Tra le loro fila riconosco anche la ragazza in pericolo.
Le donne.
E' già il secondo attentato che ricevo in brevissimo tempo. Mi sto già facendo amici potenti? Immagino chi possa essere.
Li riconosco. I Letali 69. Mercenari al servizio del miglior offerente. Dicono che il loro servizio sia soddisfacente come un bel '69'. 
I giapponesi.
Vediamo un po'. Sessantanove uomini contro uno solo? Mi preparo alla guerra. Tiro su il cappuccio, e stringo i pugni. Mi fiondo da una parte all'altra del locale, il rampino mi consente di muovermi velocemente. Li affronto uno alla volta, schivando le altre katane. Sorrido mentre i miei pugni li colpiscono in faccia. Voglio sentire il dolore, ed il gusto amaro del sangue sulle mie labbra. 
Cerco semplicemente di non far in modo che mi si fiondino tutti addosso. A volte ne disarmo uno e faccio uso della katana per affettare qualcun'altro. Ovviamente nessun tipo di ferita mortale.
Ma c'è qualcosa che non va. Che succede? In mezzo a tutta quella calca, mi sembra di vedere una persona familiare. Un quarantenne, caucasico, anch'egli vestito in smoking. Capelli pettinati all'indietro, baffi ben curati.
Mangrove Pierce Senior. Mio padre. Allucinazione. Mi distraggo quel tanto che basta affinché il manico di una katana mi colpisca alla testa, facendomi perdere i sensi.
Tutto diventa buio.
Quando mi risveglio mi ritrovo avvinghiato ad una camicia di forza, dentro un automobile. Sott'acqua. Cattivi da fumetto. Bastava un colpo alla testa ben assestato.

martedì 18 ottobre 2011

Zone di grigio


Solo, il povero negretto,
in un bosco se ne andò:
ad un pino si impiccò,
e nessuno ne restò.

No. Non è andata esattamente così. Mi accorgo di lei prima ancora che mi rivolga parola. La pelle è alabastro, i capelli sono stracci di notte che le incorniciano dolcemente il viso, la bocca è una ciliegia.

<Mangrove Pierce.> 
Qui, al club dei gentiluomini di New York, indosso la maschera delle circostanze, sfoggio il sorriso da porco, le mani si articolano nelle mosse di un esasperato attore shakesperiano un po' ritardato.

<E tu, mia cara, dovresti essere la numero 129 questa settimana.>

Non batte ciglio, e quel sorriso non le si sfila di dosso. Sembra uscita da un film di David Lynch. La cappa di fumo dei sigari dei miei "amici" ci avvolge. Azzardo la seconda mossa.

<Posso sapere cosa induce una bella e giovane donna come te a rivolgere parola ad un vecchio armadio come me? Soprattutto in un luogo così... tremendamente inflazionato, per un corteggiamento.>

<Odio l'arte priva di contenuto. Ero al MoMA poco fa, quindi potrai immaginare. Cercavo qualcosa che potesse attirare meglio la mia attenzione.>

Cerco di sfoggiare la miglior risata strafottente che mi riesca. Mi asciugo persino una lacrima inesistente.

<Oh, signorina. Non so se essere lusingato oppure offeso. Mi hai preferito ad Andy Warhol. E Van Gogh? Non lasciarti fuorviare dalla stramba arte moderna del primo piano! Non hai voluto perderti tra le stella della sua 'Notte Stellata'?>

<Avevo semplicemente voglia di osservare quelle vere, assieme ad una buona compagnia.>

La ragazzina ci sa fare, ha una bella bocca. L'avrà allenata parecchio. Cosa cerca? Il brivido di ritrovarsi avvinghiata con Mangrove Pierce nella foto di un qualunque giornale scandalistico di New York, che mostrerà con orgoglio alle proprie nipoti tra cinquant'anni? Odio le donne prive di contenuto. Accontentiamola. 

Ma prima che possa rispondere lei mi anticipa.

<Ci sono ventidue uomini in questa sala, e più o meno altrettante donne, facenti parti della 'crema' dell' alta borghesia Newyorkese. Ogni uomo è un lupo. Sigaro, abiti di una certa classe, portafogli gonfi come un omino Michelin. Ho notato che sono sempre loro a fare il primo passo, ad inquadrare la preda ed a partire all'attacco. Stanotte la quasi totalità dei lupi porterà nel proprio letto una pecora o due. Tutti hanno fatto la prima mossa. Il lupo Mangrove Pierce si limita a gettare battute di fine humor inglese qui e lì, a bere qualche drink, a scherzare con qualche pecora. Eppure alla fine della serata risale da solo sulla propria Rolls Royce. La cosa strana è che lui non risale sulla propria macchina per incapacità personale. E' considerato uno degli uomini più piacenti da Vogue. E' una scelta personale, dunque?>

Mi sforzo di non cancellare dal mio viso il sorriso da porco. Questa è da tenere d'occhio. Sicuramente. Rido di nuovo.

<Sei proprio un tesoro, mia cara. Davvero divertente. Come hai detto di chiamarti?>

<Non l'ho detto. Mi chiamo Medea.>

<Medea! Che nome paradisiaco! Allora, che ne dici di uscircene un po', da questa cappa opprimente di fumo, e goderci lo spettacolo del cielo stellato?> 

New York, la notte dopo.
A Crime Alley, ovverosia uno dei peggiori ghetti di New York, esiste un locale su cui ci sono strane voci. 'La cantina del gatto nero'. L'uomo che questa notte fa il suo ingresso nel locale è un uomo perbene, di un certo rango sociale, lavoratore, marito e padre esemplare, che cerca goffamente di sembrare l'esatto opposto. Si avvicina al bancone dove viene servita la birra della peggior classe, annacquata spudoratamente, e chiede con la voce tremolante dove, quando ed in che moda possa parlare con Lui.
Lui. Il Sussurratore. Si dice che sia uno dei miglior 'professionisti' di Crime Alley. E' raro che parli, ma solo che... sussurri. Un tipo caratteristico. Il barista dice all'uomo perbene che se un damerino come lui cerca guai, è proprio quello il tipo giusto. Ridendo come se abbia appena sentito la barzelletta del secolo, lo conduce in un ufficio privato lasciando per un istante gli ubriaconi del bar da soli.
E Lui era lì. Al Sussurratore aspetta un lavoro particolare. Il committente è Wallace Sage, ormai da più di un mese al centro di uno scandalo giudiziario che lo vede implicato come il mandante dell'omicidio dei suoi stessi collaboratori aziendali. A confessare e ad accusarlo come mandante un pesce piccolo della criminalità organizzata, killer italo-americano di nome D'Abbraccio. Un caso particolare. Un killer professionista pestato a sangue e con tale violenza fino ad essere costretto a confessare.
Il Sussurratore sorride sotto la maschera di metallo, ed ascolta.

Adesso. 
Il cappuccio e la maschera mi nascondono il viso, i muscoli sono piegati mentre mi sporgo di lato ad osservare il vicolo sotto di me. E' una notte tranquilla. C'è qualcosa che non va. Su questo tetto ci sono due sgabuzzini delle scope e due prese d'aria. Il vento ha cominciato a battere su un quinto oggetto. Mi scanso di lato appena in tempo per evitare l'affondo di una katana. Mi volto. E' lì che mi osserva con quegli occhi vitrei come farebbe un turco affamato con un kebab. La katana è di ottima fattura, forgiata in giappone, ha cinquant'anni circa. L'armatura è coreana. Schivo altri due affondi, mi concentro trattenendo il respiro e facendo scattare il riflesso del tuffatore. Un paio di giravolte mi portano dietro ad uno degli sgabuzzini.
Gli lancio contro un paio di shuriken, ma quel marpione semplicemente li para con quei parapolsi. Non mi sottraggo certo ad un corpo a corpo. Gli corro contro, scivolo lungo la superficie appiccicosa del tetto, lui con un saltello schiva il mio attacco. Mi rialzo, pronto. Miro alle cosce, colpisco le ginocchia e lui si inginocchia dolorante.
Devo disarmarlo ma... era una finta. Per poco non mi asporta il fegato con quella spada. Continua a pressarmi. Non ho mai visto nessuno combattere così. Quanti stili di combattimento conosce? Karate, judo, jeet kune do...
Ho indietreggiato fino al cornicione. Sto per cadere giù...
Un altro fendente. Disperato, gli afferro il braccio e lo spingo di sotto.
Mentre precipita giù non caccia un urlo. Ma lo schianto con il suolo rimbomba in tutto il vicolo.

Mai uccidere. Me l'ero ripromesso. Resto lì per qualche secondo ad osservare la sagoma scompostamente riversa al suolo, poi salto sul cornicione successivo. Il mantello scarlatto  è bagnato dalla luce lunare.
Al mio posto un eroe dei fumetti avrebbe trovato tredici risoluzioni per vincere lo scontro senza ricorrere all'omicidio.

Devo migliorare.