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sabato 19 novembre 2011

Il serraglio

Ricordo mio padre.
Mi faceva paura.
Sono intrappolato nella presa di una camicia di forza, all'interno di un'automobile, sott'acqua. Senza dubbio è l'Hudson.
Quando compii dieci anni ricordo che mio padre mi fece sedere nel suo studio e stetti lì tre ore ad imparare l'intero albero genealogico della nostra famiglia,senza il minimo errore, sino a risalire al 1260. Col tempo ho imparato che quel albero ha radici che si spingono ancora di più nelle fondamenta di questa terra.
Mangrove Pierce Sr. era un uomo duro, metodologico. Amava l'ordine e la razionalità, non lasciava che nulla sfuggisse alla sua attenzione
Mangrove Pierce Sr. pensava a tutto.
Mangrove Pierce pensa a tutto.
Un'isola dalla testa di moro, sperduta chissà dove. Dieci uomini che avrebbero potuto cambiare il mondo. Ma c'è sempre qualcuno che deve rovinare le cose. C'è sempre una serpe nel giardino.
Mi lasciò fuggire.
Mi hanno lasciato in vita. Cattivi da fumetto. La camicia di forza è la parte più difficile. Devo lasciare che l'irreale penetri nel reale, credere che sia possibile. Una falla nel sistema, una falla nel meccanismo ad orologeria. Il violino fuor di chiave.
Un pesce mi scruta al di là del parabrezza con occhi vacui. Cos'è possibile? Impossibile è uscire di casa ogni sera ed affrontare 69 ninja fuori di testa, o semplicemente afferrare quella maschera e lasciare che il lattice la faccia aderire sulla pelle? Lasciare che le mani afferrino quella maschera è più complicato di tutto il resto. Dopo di questo, tutto è in discesa. Dopo di questo essere intrappolato in una camicia di forza sott'acqua diventa solo fastidioso.
Dopo qualche minuto sono libero. Mi tocco il viso. Non mi hanno tolto la maschera, per onorare il guerriero e la sua volontà. Eppure mi hanno portato via la Lynx-cintura. Marpioni.
Mangrove Pierce pensa a tutto. Infilo senza troppo ritegno la mano nelle mutande, ed afferro un esplosivo. Battute goliardiche esplicitamente sessuali a parte, immaginavo che non avrebbero mai cercato proprio... lì.
Mi riparo dietro il sedile posteriore, e lancio l'esplosivo contro il parabrezza. Il tempo sembra scorrere infinito lungo una destinazione che non esiste. Ritorno ai miei dieci anni.
Dopo quelle tre ore passate ad imparare quell'albero genealogico, fino a discendere al 1260 ricordo che andai con mio padre e mia madre a visitare il serraglio di un importante amico di famiglia, nel sud-est asiatico. Ricordo che per qualche motivo sconosciuto, ad un certo punto rimasi lì, da solo. I miei genitori probabilmente s'erano allontanati per qualche minuto. Quel serraglio puzzava di feci di scimmia e di uccello, e fu lì che la vidi per la prima volta. Mi avvicinai alla gabbia con passi incerti, e lei era lì, che mi scrutava con quei suoi occhi gialli. Stringeva nella bocca elegante un topolino a cui aveva spezzato il collo con la stessa facilità con cui respirava. Ricordo che quegli occhi gialli spiavano all'interno della mia anima con la stessa intensità con cui nessun occhio umano avrebbe mai fatto in una vita intera, più nel profondo di quanto mai avrebbero fatto gli occhi di mio padre o quelli di mia madre. Perché quegli occhi gialli scrutavano ogni giorno l'abisso oscuro che ognuno di noi ha abbandonato ormai da diverse vite passate, da intere generazioni, da interi eoni, da quando camminavamo a piedi scalzi sulla terra. E quegli occhi gialli volevano spingermi in quel baratro ancora una volta, farmi ricordare cosa si prova di fronte... di fronte a tutto quello che ignoriamo quando siamo svegli e che ricordiamo per qualche secondo, nei sogni, per poi dimenticare di nuovo al mattino, appena svegliati.
Che mio padre l'avesse intuito? Era lo scopo di quell'albero genealogico?
La puzza del serraglio mi dava alla testa, avevo voglia di vomitare, e quegli occhi gialli erano come un arpione agganciato al mio cuore ed alla mia anima. Gli occhi di quella lince erano un urlo silenzioso, ed io lo stavo ascoltando con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, atterrito dalla paura. Avrei voluto strapparmi il cuore ed offrirglielo in sacrificio. Scappai via spaventato perché non riuscivo a capire; corsi tra le braccia di mia madre. Lei mi disse che la puzza non ci sarebbe stata più, dopo un po', che c'avrei fatto l'abitudine.


Il parabrezza va in frantumi, l'acqua riempie in pochi istanti l'abitacolo.
Difficile. Niente affatto impossibile.


La notte dopo il Tai Mien è in festa, i Letali 69 stanno banchettando in onore della mia onorevole morte. Con loro c'è un elemento che stona con l'intero ambiente orientale. Un uomo in giacca e cravatta, occhialuto, di buon rango sociale. Probabilmente è l'intermediario di chi ha voluto la mia morte.
Ho piazzato gli esplosivi durante la mattinata, nessuno ha badato ad un povero drogato che girava con fare circospetto intorno al locale. Mi presento a loro incappucciato, con una Lynx-cintura di riserva, appeso ad una trave. Non mi è risultato difficile intrufolarmi. Loro mi guardano divertiti.


<Signori>, esordisco, <avete cenato bene.>  


E dopo il locale è scosso dalle esplosioni.
Bum-bum-bum, il ritmo del mio cuore e delle esplosioni sono sincronizzati. Sembra uno spettacolo pirotecnico.
 I Letali 69 abbandonano il locale presi dal panico, e si disperdono nella pioggia. Osservo da lontano l'uomo in giacca e cravatta che scompare correndo come un ossesso nella notte. E' strano. Appollaiato qui, nella notte di Hell's Gate, sento un puzzo familiare. Il puzzo del serraglio. E' ritornato, la sento ovunque, in ogni vicolo di questa città.
Questa città è il mio parco giochi. Questa città è il mio serraglio.
So con chi dovrò parlare, stanotte.




Penitenziario di Stato, quella notte stessa.
Wallace Sage è rintanato nella sua cella, con le mani strette tra loro ed appoggiate sulle ginocchia. Una luna piena filtra dalla finestra del corridoio su cui dà la sua cella. Dall'ombra emerge un secondino, il volto è nascosto dalla penombra del corridoio.
Il secondino lo spia.
<Ancora non hai capito>, gli dice. <Io non posso essere fermato. Posso raggiungerti ovunque, Sage. Posso rendere questa prigionia ancora peggiore di quanto non sia già.>
<Quando finirà?>, gli chiede Sage, con un sorriso sardonico stampato sulla sua faccia smunta.
Il secondino si volta, e mentre Sage ascolta il rumore dei passi che si fa pian piano più labile, nella notte, quello gli risponde.
<Non finisce mai.>